
17/20 Aprile 2025
Sacro Triduo Pasquale
Colui che è morto ed è risorto, è «il Primo e l’Ultimo, e il Vivente». Egli possiede tutta la pienezza della vita divina e la comunica ora ai suoi fedeli.
Per prepararci a quello che già sant’Agostino chiamava il «sacratissimum triduum crucifixi, sepulti, suscitati», varchiamo la porta di uno tra i maggiori monumenti del romanico in Europa, il duomo di Modena, iniziato il 9 giugno del 1099. L’architetto fu Lanfranco, celebrato in una lapide interna come magister «famoso per ingegno, preparato e competente, direttore dei lavori, e reggitore». Accanto a lui troviamo uno scultore della statura di Wiligelmo, a cui dobbiamo le straordinarie Storie della Genesi oggi inserite nella facciata del duomo. Lanfranco e Wiligelmo operarono una sintesi straordinaria tra la cultura antica e l’arte lombarda. Dalla fine del 1100 al 1300 subentrarono i Maestri Campionesi o Comacini, architetti e scultori. A loro dobbiamo il pontile che divide in due sezioni l’interno del duomo. Esso chiude l’area presbiterale sopraelevata, delimitata da agilissime colonnine abbinate, che reggono una trabeazione quasi a formare una iconostasi. La balaustra del pontile, verso le navate, è formata dall’ambone, dove troviamo scene della Passione con al centro una mirabile e originalissima Ultima Cena.
Noi ora ci concentreremo solo su alcune scene dell’opera.
Giovedì Santo: Gv 13,1-15
Per introdurci alla Messa In coena Domini andiamo alla balaustra, e in particolare alla scena di Gesù che lava i piedi ai discepoli. Il fondale biblico, chiaramente, è Gv 13,4-5. Il gesto di Cristo, oltre che al cenacolo, rimanda anche al rito della lavanda dei piedi che il vescovo, il Giovedì Santo, compie nella sua cattedrale. I libri liturgici denominano questo rito con il termine mandatum oppure de mandato seu lotione pedum. Da notare, oltre al gesto di Gesù, centrale nel riquadro, i tre apostoli che tengono in mano ognuno un Vangelo, a significare che la nuova legge dell’amore, manifestata da Gesù mediante la lavanda, è la sintesi della rivelazione. L’amore di Gesù – ci dice l’apostolo Giovanni introducendo il racconto della lavanda – è un amore «fino alla fine, eis télos» (Gv 13,1). Eis télos ha valore anzitutto intensivo, a esprimere la totalità dell’amore, e temporale, a indicare la fedeltà nel tempo. Ci rimanda poi al compimento, alla pienezza di una donazione che ha il suo culmen sulla croce; lì Gesù, prima di consegnare lo Spirito, dirà: «Tutto è compiuto!» (Gv 19,30). L’espressione, infine, ha anche un carattere iniziatico: télos, nel linguaggio misterico, è infatti usato nel senso di introduzione all’arcano. Gesù, attraverso le sue parole e i gesti che compie, vuole introdurre tutti gli uomini nel mistero di Dio, nella conoscenza del Padre. Se ora andiamo all’Ultima Cena troviamo subito un elemento alquanto bizzarro: Gesù non porge semplicemente il boccone a Giuda, come ci narra Giovanni, ma glielo mette in bocca. Con molta probabilità, qui ci sono degli intenti apologetici. Siamo in una temperie storica che vede espandersi l’eresia di Valdo, condannato da Lucio III nel 1184, anno della consacrazione del duomo modenese. Valdo e i Valdesi contestavano la validità del sacramento quando il sacerdote che lo amministrava era una persona indegna. Per controbattere questa tesi erronea, si ricorda che Gesù aveva comunicato persino il traditore, Giuda (cosa non vera, naturalmente).
Se Giuda, come narrano concordi gli evangelisti, nell’Ultima Cena è nel pieno della tenebra, e quindi mosso da satana, questa tenebra non vince però la luce e il Maestro, con l’offerta del boccone, lo invita ancora a ritornare a Lui. Ma Giuda rimane impermeabile. Di più, esce dal cenacolo, autoescludendosi dalla consegna del comandamento nuovo dato da Gesù ai suoi poco dopo (cf. Gv 13,34-35). Ma lo stesso Giovanni ci ricorda una cosa importantissima: se è vero che Giuda si autoesclude dalla consegna del comandamento dell’amore, dal Maestro non è però stato escluso dall’originaria fondazione di questo amore, significata dalla lavanda.
Venerdì santo: Gv 18,1-19,42
Ci spostiamo ora alla scena della cattura, dove, oltre al bacio di Giuda (raffigurato, rispetto alla scena della Cena, senza più aureola), viene immortalata la scena di Pietro che taglia l’orecchio a Malco, servo del Sommo Sacerdote (cf. Gv 18). Per quale ragione l’evangelista si è soffermato su questo particolare, ben ripreso dai nostri scultori? In Giovanni nulla è a caso, neppure il fatto che si specifichi che Pietro taglia proprio l’orecchio destro. Nel rito di consacrazione del sommo sacerdote si prendeva il sangue di un ariete e si toccavano le varie parti del corpo del neoconsacrato, tra cui il lobo dell’orecchio destro (cf. Es 29,20). Che Pietro stacchi proprio l’orecchio destro di Malco significa, nella sua portata simbolica, che il sommo sacerdozio è caduto. Già secondo il testamento di Levi, il Messia avrebbe portato un nuovo sacerdozio. E difatti Gesù inaugura un nuovo sacerdozio dove non si offrono più capri e vitelli, ma la propria obbedienza a Dio, nell’offerta di sé. Cena e Passione sono strettamente congiunte, a ricordarci anche come l’Eucaristia riattualizza sacramentalmente il sacrificio della croce. Gesù rifiutando la logica di Pietro che impugna la spada e taglia l’orecchio di Malco, lo rimanda alla volontà del Padre e interpreta la sua imminente Passione: «Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?» (Gv 18,11). È un calice amaro, dato dal Padre e insieme accolto dal Figlio, per essere poi riconsegnato dal Figlio al Padre in un atto estremo di amore. Il calice rappresenta l’amore di Dio per il mondo, la sua passione d’amore per l’umanità.
Sabato santo
Dopo il Venerdì Santo, che è un’incredibile apertura sul mistero di Dio, la Chiesa resta in silenziosa preghiera presso il sepolcro del Signore, attendendo nella speranza l’alba della risurrezione. I Padri spesso hanno accostato il Sabato Santo, in cui Cristo riposa nel cuore della terra, al settimo giorno della creazione, in cui Dio si è riposato da tutte le sue opere. «Oggi hai santificato il settimo giorno * che un tempo avevi benedetto con il riposo dalle opere: * poiché tu muti e rinnovi l’universo, * celebrando il riposo sabbatico nel sepolcro, * e tutto lo rianimi, o mio Salvatore», canta la liturgia bizantina.
L’Oriente conosce una simbologia suggestiva che introduce al gran giorno della risurrezione. Ancora nel silenzio del grande sabato, al momento del mattutino della notte di Pasqua, il sacerdote e i fedeli lasciano la chiesa e si fermano fuori dinanzi alla porta chiusa, che simboleggia la tomba del Signore e la morte. Il sacerdote traccia un segno di croce sulla porta e questa si spalanca – proprio come la porta degli inferi alla discesa di Cristo – e tutti entrano cantando nella chiesa finalmente inondata di luce. La notte pasquale, in cui Cristo passa dalle tenebre alla luce, sta al cuore dell’intero anno liturgico. Il mistero della redenzione – che riviviamo in ogni Eucaristia – è l’atto nuziale con cui Cristo si unisce all’umanità, facendola passare con Lui dalla morte alla vita. La sua risurrezione possiede un significato e una forza che valgono per tutta l’umanità e per il cosmo intero. L’annuncio del fatto sconvolgente e del tutto inatteso che Gesù di Nazaret, il crocifisso del Golgota, è risorto – ēghérthē (Mt 28,6; cf. Lc 24,6; Mc 16,6) è la formula primordiale della nostra fede – dà il via all’avventura cristiana. Il cristianesimo è l’avventura di coloro che si pongono in uno stato di «follia» (1Cor 2,14) agli occhi dei non credenti e che dalla risurrezione del loro Signore traggono una nuova dimensione e modalità del loro essere uomini.
Domenica di Resurrezione: Gv 20,1-9
Possiamo allora infine contemplare, sulla lastra dell’ambone, il Cristo benedicente seduto sul trono, pieno di maestà e di gloria. Si caratterizza dal nimbo crociato, dalla mano destra benedicente, dalle due lettere alfa e omega dell’alfabeto greco e dal Vangelo che regge con la mano sinistra. Sulla sommità leggiamo questa scritta in latino: Non luce(m) cernis tam(en) hic lux me(n)te refulget, ovvero: «Tu non vedi una luce, tuttavia da qui (dal Vangelo di Cristo) la Luce splende nella tua mente».
Che la lastra faccia parte dell’ambone non è un caso: non è forse dal sepolcro vuoto di Cristo, di cui è simbolo l’ambone, che l’angelo annuncia l’evento della risurrezione (cf. Mt 28,2)? La Chiesa proclamando il Vangelo, in particolare nella celebrazione eucaristica, rivive la grazia delle sue origini e annuncia al mondo intero la salvezza. Colui che è morto ed è risorto, è «il Primo e l’Ultimo, e il Vivente» (Ap 1,17-18). Egli possiede tutta la pienezza della vita divina e la comunica ora ai suoi fedeli.
Il Risorto che appare ai suoi dona la pace e la benedizione nell’effusione dello Spirito Santo (cf. Gv 20,19-22). Siamo ormai nella nuova creazione inaugurata dalla risurrezione. Siamo entrati nell’Ottavo giorno, il giorno del compimento e del nuovo inizio, il giorno dell’eternità, l’“oggi” in cui l’immagine di Cristo torna a risplendere nell’uomo e l’umanità entra con Cristo nel Paradiso.
Commento a cura di d. Sandro Carotta, osb
Abbazia di Praglia