P. Paolo Maria Gionta, OSB
Procuratore

 

150 ANNI DELLA CONGREGAZIONE SUBLACENSE CASSINESE

Con decreto del 9 marzo 1872 il dicastero romano competente eresse l’insieme di monasteri fondati e guidati dall’abate Pietro Casaretto «in vera, reale e indipendente Congregazione sotto il titolo di Congregazione Cassinese della Primitiva Osservanza». Fu il punto di arrivo di un percorso travagliato, ma anche quello di partenza di un cammino non certamente scontato che avrebbe condotto ad esiti allora del tutto imprevedibili, fino ad approdare alla situazione odierna. La considerazione delle origini della nostra Congregazione, non avulsa da quella del tragitto compiuto nei centocinquant’anni trascorsi, è capace di presentarci alcuni elementi nei quali scorgere il patrimonio e l’identità carismatica del nostro Istituto e, in pari tempo, offrirci alcuni stimoli per il presente e l’immediato futuro.
Un primo aspetto degno di nota è legato alla presenza, all’interno dell’opera riformatrice del Casaretto, di aspetti in apparenza difficilmente compatibili, se non addirittura, almeno teoricamente, contrastanti. Vi appare con insistenza, ad esempio, il desiderio di silenzio e di solitudine, ma anche – e fin da subito – l’impegno pastorale esercitato in molteplici modi, compresa l’istituzione di collegi per le missioni e per giovani nobili. Alla cura scrupolosa per la recita integrale dell’Ufficio divino e, in particolare, del Mattutino celebrato di notte, si affiancava l’assunzione di forme devozionali fino ad allora estranee alla tradizione monastica, quali il rosario mariano, la meditazione e l’esame di coscienza. L’instaurazione di una “comune osservanza” in tutti i monasteri inoltre lasciava spazio col tempo e, si potrebbe dire, giocoforza all’accettazione di usi differenti a seconda dell’area geografica di appartenenza (ciò si verificò nei primi decenni specialmente a proposito dell’astinenza dalla carne).

La tensione tra fattori di segno dissimile e anche opposto, emergente dalla storia della riforma sublacense, ed il conseguente bisogno di reperire soluzioni condivisibili, oltre che sottolinearne il carattere, in un certo senso, empirico, ha soprattutto potuto educare ad un atteggiamento che si potrebbe qualificare col termine di duttilità o di capacità di adattamento; e quindi alla rinuncia ad imporre ad ogni costo modelli rigidamente confezionati, come pure alla ricerca, soprattutto in determinati frangenti, di nuovi equilibri e di nuove soluzioni. Evidentemente tale atteggiamento è nato e si è manifestato dapprima sul piano pratico e in stretto rapporto con la configurazione internazionale della Congregazione; ma poi è maturato in una forma mentis propensa a comprendere e ad ammettere esperienze diverse dalla propria, ad aprirsi a proposte inedite. Si può così affermare che, su tali basi, i nostri monasteri sono stati meglio preparati ad affrontare le questioni sorte, da una parte, con l’emergere della cultura contemporanea, per tanti versi contrassegnata da fattori fortemente discontinui rispetto alla mentalità precedente, e dall’altra con l’impulso conciliare alla accomodata renovatio della vita religiosa. Questa accettazione di opzioni diverse e questa apertura al non-già-dato, risultanti dalla nostra storia, rappresentano un dato estremamente eloquente per l’oggi, almeno per due motivi: esso conferma anzitutto che il fondamento dell’unione tra i nostri monasteri, dove vige una pluralità di forme, di stili e di sensibilità, risiede principalmente nel senso di appartenenza ad un’unica famiglia, marcata da vicissitudini comuni e da una “aria di casa” tutta propria. Inoltre stimola a trasformare – ed è un passaggio da reiterare ad ogni decisione da prendere, ad ogni discussione capitolare – la pura e semplice ricerca di soluzioni adeguate in un processo spirituale che lasci spazio, tempo e protagonismo alla voce del Paraclito, evitando di affidarsi alla sola argomentazione razionale o al compromesso tra pareri discordanti.

I primi passi della nostra storia sono stati poi segnati dal forte appello alla riforma: è noto, in tal senso, il persistente richiamo alla celebrazione integrale della Liturgia delle Ore, alla pratica fedele della povertà monastica ed all’osservanza delle austerità previste dalla Regola benedettina e dalla primitiva tradizione cassinese. Per decenni i monaci sublacensi si sono distinti per questo peculiare carattere di austerità e osservanza scrupolosa. In seguito, tanto un’esegesi rinnovata dei testi evangelici e della letteratura spirituale, quanto la svolta antropologica che ha contraddistinto l’epoca più recente hanno condotto a rivedere pratiche e a valutare in modo nuovo le giustificazioni ad esse sottese; siamo giunti così alla condizione che, con un certo rammarico, l’abate Brasò così già descriveva rievocando il centenario della Congregazione: «Vogliamo essere monaci coscienti ed autentici, però procuriamo in tutti i modi che la nostra vita sia il più possibile gradevole, indipendente, comoda e facile». Non si tratta certamente di abbracciare il regime penitenziale di centocinquant’anni fa, anche perché, come sottolineato poco sopra, abbiamo acquisito quella versatilità di atteggiamento e di giudizio che ci porta a non assolutizzare le forme e le consuetudini. Eppure il vigore spirituale che ha accompagnato il sorgere dell’esperienza sublacense dovrebbe comunque continuare ad essere un elemento importante della nostra vita monastica; anzi, sarebbe forse opportuno renderci maggiormente conto che sarebbe vano pretendere di mantenere un tale vigore senza al contempo impegnarsi in scelte precise ed individuare modalità concrete in cui esso possa effettivamente incarnarsi.

Quando nell’ottobre 1891 il giovane Mauro Serafini, più tardi Abate Generale, venne trasferito a Torrechiara (Parma), il cronista dell’abbazia di San Giuliano annotava: «Era egli amantissimo dell’osservanza e della vita regolare; assiduo fino allo scrupolo alla salmodia notturna ed all’astinenza. Amava e gustava la solennità delle sacre funzioni e per riuscirvi vi impiegava ogni studio. Sempre allegro, la sua faccia ilare, lo sguardo semplice ed i modi cortesi attiravano i cuori dei fedeli». Non è l’unica circostanza in cui le fonti della nostra storia pongono in evidenza, insieme allo sforzo ascetico, anche la bontà e l’amabilità di un monaco esemplare o il clima spirituale sereno di una famiglia claustrale; anzi! Già dopo pochi mesi dalla riapertura di San Giuliano, P. Raffaele Testa, scrivendo ad un confratello affermava: «Qui tutti vivono congiunti in santo vincolo di carità». Frutto e segno del successo della riforma di Casaretto è stato l’espandersi dell’amore fraterno nelle comunità da lui fondate o rianimate. Quanto resta vero e attuale questo richiamo: solo dove c’è amore, vi è gioia, vi è pace, vi si trova Dio!

Riassumendo quanto sopra scritto, il centocinquantesimo anniversario, insieme ad altre possibili considerazioni, invita ad abituarsi a porsi in ascolto della voce dello Spirito, percepibile anche in mezzo alle vicende odierne e alle problematiche più ardue, a ritrovare il coraggio di aprirsi, come i nostri padri, alle esigenze del radicalismo evangelico, ad amarci reciprocamente con rispetto e affetto, lottando contro l’egoismo e l’indifferenza.

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